Quando sono tornata a casa dal cantiere, i miei amici e la mia famiglia mi hanno chiesto di raccontare loro cosa avessi vissuto in quei dieci giorni a Casa Suraya. Ad essere sincera non sapevo da dove iniziare… come poter riassumere a parole un’esperienza così forte? Mi sono allora soffermata a pensare a quali immagini mi fossero rimaste più impresse nella mente, a quali emozioni avessi conservato vivide nel mio cuore.
Ho così parlato delle risa dei bambini per i lunghi corridoi di Casa Suraya e di Casetta, delle corse in cortile, dei colori delle tempere sulle mani e sui vestiti, degli spettacolini improvvisati in cambio di qualche sorriso, dei palloncini sparsi sul cemento.
Ho poi ricordato l’esperienza a Casa Nazareth e le chiacchierate con ragazze adolescenti cresciute forse troppo in fretta, ma con tanto bisogno di amore incondizionato. Conservo ancora dentro di me le loro risate, i loro grazie e la mia personale soddisfazione nel rendermi conto di essermi guadagnata la fiducia di alcune di loro.
Se chiudo gli occhi, poi, vedo ancora gli sguardi dei ragazzi del comunità “Il seme”. Le loro storie, ma anche i loro silenzi, mi hanno raccontato tanto. Ho toccato con mano una realtà troppo spesso ignorata: quella di bambini, ragazzi che migrano soli sfidando la morte e aggrappandosi alla convinzione di meritarsi una vita migliore.
Non ho potuto non citare le altre innumerevoli occasioni che mi sono state offerte: la visita al centro SAI Sammartini così come quella a Villapizzone, i pranzi, le cene in compagnia, le chiacchierate con i compagni volontari così come con chi, più grande di me, ha saputo insegnarmi tanto.
Per concludere, a qualsiasi persona io abbia parlato del cantiere ho detto che sì, partecipare ai cantieri della Caritas ne vale proprio la pena. Mi sono sentita arricchita ma anche alleggerita da tutte le superficialità che, nella routine quotidiana, mi appesantiscono l’anima.
Chiara