di Silvia Bonalberti, educatrice del centro SAI – Comune di Milano – sede di via Sammartini

Sono le 8.30 del mattino, è venerdì. Qui al centro a quest’ora c’è un gran silenzio, si sentono solo i tintinnii delle tazze, riempite di caffè. Uno strano dolore mi ha svegliato presto, questa mattina, fastidioso, intenso, ma sopportabile. Mi siedo sul letto, mi alzo, controllando l’equilibrio, per non farmi sbilanciare dal pancione che nelle ultime settimane sembra cresciuto a dismisura, e mi dirigo verso il corridoio per andare nel bagno comune accanto alla mia stanza. Incrocio un’operatrice, un saluto cordiale, ma frettoloso.

Mi accorgo subito che c’è qualcosa di strano, sta succedendo qualcosa. Ma proprio ieri il dottore mi ha detto di stare tranquilla, che manca poco, ma che non è ancora il momento. Eppure…

Sento la mia voce chiamare forte la mia compagna di stanza. Arriva di corsa, richiamata dalle mie grida. Mi guarda, mi dice di stare tranquilla, che va a cercare aiuto. Mi lascia di nuovo sola, in bagno. Non so cosa fare. Lo so che non si muore, di parto, non in Europa. Ma io ho un po’ paura. È la mia prima gravidanza, non ho mai visto nessuna donna della mia famiglia partorire. Se fossi a casa probabilmente ci sarebbero mia mamma, o mia suocera, loro saprebbero cosa fare.

La mia compagna di stanza torna, insieme a un’altra ragazza ospite del centro. Lei ha già un figlio ed è in attesa del secondo. Mi parla sicura, mi dice di sdraiarmi per terra. In quell’esatto istante smetto di avere paura e di sentirmi sola. Cerco di controllare il mio respiro, mi lascio guidare e attraversare da quella voce calma, sicura, ferma, voce di donna che con dolcezza e semplicità mi porta in uno spazio e in un tempo che esistono da sempre, il luogo in cui il grembo di una madre smette di essere casa e dona al mondo una piccola nuova vita.

Dolore, muscoli, respiro, una mano che stringe la mia e mi tiene legata alla vita e alla terra, in un attimo sospeso da tutto e da tutti. Sento la mia bambina scivolare fuori da me. Ce l’ho fatta, ce l’abbiamo fatta, figlia mia. Ma perché non piangi? Non dovresti piangere?

Aria, aria, per favore… non respiro… c’è qualcosa che non va…

La voce dell’operatrice parla con qualcuno al telefono, capisco che hanno chiamato l’ambulanza, dall’altra parte c’è un dottore che le dice cosa fare. Prendono la mia bambina per i piedi e io posso finalmente vederla per la prima volta. Sei bellissima. Piangi, piccola mia, per favore.

Mi ritrovo sottosopra, un colpo forte e… l’odore della vita mi riempie i polmoni e io non posso fare altro che gridare, perché sono viva.

La sua voce risuona all’improvviso, finalmente, dopo un tempo che a me è sembrato infinito. Un pianto che è un inno, un richiamo alla vita, rimbalza tra le pareti del bagno, attraversa i corridoi del centro.

Sono diventata madre.

Ho partorito mia figlia sdraiata sulla terra, tra le mani di una donna, anche lei con una vita accolta in grembo. Le sue mani e la sua voce sono state la casa in cui avrei dato alla luce mia figlia, se fossi stata nel mio Paese, in Africa, a casa mia. Eppure è successo anche qui, in Europa, in Italia, in quest’altra casa che non mi appartiene, ma mi ha accolta e accompagnata in questi mesi e che presto lascerò, per trovarne una in cui costruire il mio nuovo futuro.

Sulla lettera di dimissione dall’ospedale c’è scritto “nata al domicilio”.

Sono nata nel bagno del centro di accoglienza di via Sammartini, donna tra donne. Sradicata in un attimo dal grembo di mia madre alla vita, in un attimo ho trovato mani, volti, che mi hanno radicato in una casa e in una storia più grande di noi, donne che da secoli aiutano donne a partorire la vita.

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