di Christian Boniardi e Cinzia Torchiana del centro SAI Casa Monluè
Cosa significa “sentirsi a casa” per un rifugiato? Domanda difficile, certo. Che poi, in realtà, il quesito è arduo anche per ogni uomo, ogni donna: dov’è casa? Cos’è casa? Quando ci si sente a casa? Chi ci fa sentire a casa? Cosa ci fa sentire a casa?
Il calore di un abbraccio che ricorda i saluti di chi è rimasto a migliaia di chilometri di distanza in situazioni tribolate.
Il colore della terra di Casa Monluè, mischiata ai detriti, che ricorda altre terre, rivoltate tante volte nei campi di famiglia.
Il profumo di un piatto cucinato con degli amici al sapore di cumino, curcuma e zenzero.
Una chat con la mamma, la moglie, i figli, che sorridono vedendoti sullo schermo.
Oppure, casa è dove ci si può ritrovare come individuo, ricompattando le parti frammentate del proprio sé, in un altrove finalmente possibile in cui risolvere i conti con il proprio passato.
E così, in un pomeriggio di primavera, ci si ritrova a zappare e a dipingere sotto un cielo terso, con persone che vengono da mondi lontanissimi e hanno voglia di stare insieme, mentre si prendono cura di un piccolo pezzo di terra tra la tangenziale est ed il fiume Lambro.
C’è chi si china, il sedere all’insù, la schiena robusta incurvata sulla zappa, accompagnando i propri movimenti parlando in bambarà con qualche amico.
Uomini che si sono forgiati coltivando pezzetti di terra da strappare al deserto del Mali e che padroneggiano gesti antichi di mani e di piedi.
C’è chi diserba ascoltando musica afro-beat senegalese, che ci culla, si dilata nei suoni e ci dà il giusto ritmo di lavoro.
C’è chi in quel pezzetto di terra si sente a casa, poiché si sente finalmente sicuro, lontano dalle violenze che lo hanno inseguito per tutta la vita, e così ti dona la sua estetica, colorata come un poncho di quelli che vengono venduti nella periferia di Lima. Un mosaico variopinto e ordinato insieme.
C’è chi pianta pomodori e ti dice che si immagina un futuro in cui spera di vivere in una casa con un piccolo orto da coltivare, in cui rilassarsi dopo una giornata di lavoro.
C’è chi pianta zucchine e cetrioli e ti chiede cosa siano quelle piantine che se sei un po’distratto sembrano tutte uguali.
C’è chi ti parla degli aromi. Del rosmarino, ad esempio, che ha imparato ad usare lavorando nella cucina di un ristorante nel centro di Milano. E ora sa preparare arrosti e patate al forno come non ci fosse un domani. E se B., che è gambiano, lo usa in cucina, L., che è peruviano, lo utilizza per rilassarsi: un rametto vicino al cuscino culla come un olio medicamentoso e fa fare buoni sogni.
E poi c’è chi lavora vestito tutto elegante, con delle nuovissime sneakers rosse ai piedi, come le scarpette rosse della pallacanestro milanese, l’Olimpia, perché dopo avere lavorato nell’orto di Casa Monluè, andrà in Duomo a trovare gli amici… e una fidanzata, forse. Ma siccome lavora nei campi da quando è nato, è sicuro nei movimenti, e non si sporcherà perché sa come si fa e te lo spiega, con calma.
E così, in quel pezzo di terra tra la tangenziale est ed il fiume Lambro, si incontrano storie di uomini che, finalmente, si sentono a casa, scaldati dalla possibilità di intrecciare i loro vissuti con quelli di altri uomini venuti da lontano.
Uomini che hanno voglia di raccontare e raccontarsi, e di stare in una relazione educativa anche con chi, come noi, è nato nella periferia di Milano nella prima metà degli anni ’70.
Uomini che lavorando quel pezzo di terra con le bordature colorate, si prendono cura di una radice identitaria da preservare. E prendendosene cura, arricchiscono la terra che hanno dentro, quella nella quale coltivano nuovi sogni, per un futuro in cui diventeranno propositi, ed i propositi, come diceva Adriano Olivetti, sono qualcosa di infinitamente più grande.