di Debora Comito, facilitatrice linguistica del Centro Interculturale Come

Se penso al mio lavoro, penso alle mille parole che conosco, che pronuncio, che penso, che sento, che scrivo e che insegno tra i banchi di scuola. Ma quando le parole non ci sono, compaiono lo sguardo, il volto e i gesti che sono capaci di esprimere le mille parole non dette.
Se penso al mio lavoro, penso al piacere di vedere quello sguardo, quello sguardo che è in grado di raccontare lo stupore della scoperta, la bellezza dell’incontro atteso, lo sguardo divertito di una parola pronunciata in modo buffo.
Se penso alle parole mi voglio soffermare su quelle non dette o meglio quelle nascoste.

Ricordo Mouad, un bambino di circa 6 anni, conosciuto lo scorso anno durante il laboratorio di facilitazione linguistica. Un bambino arrivato da molto lontano, dal Senegal e inserito in una prima classe.
La storia di Mouad è fatta di migrazioni, ricca di viaggi, di luoghi lontani e di persone incontrate nel lontano Senegal, nella fredda Germania e infine nella sconosciuta Italia… Ma questi viaggi, nella sua testa di bambino, erano tanti ricordi e mille emozioni, che però non avevano parole. E poi quale lingua avrebbe dovuto usare per poter dire quelle parole? Questa domanda mi ronzava in testa ogni qualvolta incrociavo i suoi occhi.

La prima volta che ho incontrato Mouad, ciò che catturò la mia attenzione fu il suo sguardo, uno sguardo disorientato, alla continua ricerca di riferimenti, di conferme, di gesti da poter riprodurre per sentirsi presente in quel contesto.
Dietro la mascherina si nascondeva una bocca che non produceva né sorrisi, né parole.
Era un bambino fermo alla fermata dell’autobus in attesa di salire su un pullman, i pullman continuavano a passare, ma lui non riusciva mai a salire perché non si sentiva pronto. Capii che quel bambino aveva bisogno di qualcuno che stesse accanto a lui a quella fermata e iniziai il percorso di facilitazione linguistica. Fu un percorso molto particolare, unico, stimolante e ricco di emozioni.

Durante le ore del laboratorio linguistico, mi piaceva osservarlo quando conquistava le sue piccole autonomie nel sapersi orientare, nel riconoscere le figure quotidiane presenti nella scuola e imparava a dare un significato al suono della campanella.
Mouad si lasciava guidare ed accompagnare nelle lezioni in un silenzio pieno di fiducia quasi disarmante, un silenzio che non avevo mai conosciuto, fino a quel momento.
Gli incontri con Mouad erano ricchi di sguardi e gesti, che diventarono per noi parole famigliari. Fino al giorno in cui guardò il mio orologio e pronunciò la sua prima parola: BELLO.
Era una parola piena di significati positivi e racchiudeva in sé un’emozione così grande, da riuscire a dare valore al nostro muto linguaggio condiviso. Quella parola mi ha fatto scoprire il tono della sua voce, un piccolo frammento del suo essere bambino, dandomi la possibilità di conoscerlo ancora più a fondo.
Da quella parola si è aperto un nuovo modo di comunicare: ad ogni immagine, ad ogni colore, ad ogni disegno, Mouad partecipava usando suoni e parole che non appartenevano né alla sua lingua madre, ma neppure all’italiano: erano le sue parole! E avevano un suono, una melodia che racchiudevano il voler comunicare, il desiderio di farsi conoscere e di esprimere il suo essere.
Da quella parola sono fioriti, come dei boccioli, i suoi primi sorrisi… sorrisi per tutti: per i bidelli che incontrava per i corridoi, per le maestre in classe, per i suoi compagni, per il suo aereo di carta che volava in giardino… e sorrisi per me, durante gli ultimi pomeriggi trascorsi insieme a scuola!

Ora Mouad è finalmente salito sul pullman, non è più solo, è assieme ad altri bambini che hanno mille parole e mille sorrisi da condividere. E io dalla fermata lo saluto sorridendo…

Buon viaggio!