di Sara Peroni coordinatrice di Casa Suraya

In questo periodo ci chiediamo spesso come raccontare il nostro lavoro di operatori sociali. Ma in realtà è una domanda che ci accompagna un po’ da sempre: come possiamo rendere patrimonio condiviso e nello stesso tempo proteggere quello che facciamo, il senso del nostro operare, le storie delle persone che incontriamo ogni giorno, o l’intimità e la profondità di una relazione?

Ci sono momenti particolari, una festa, un evento, un incontro, per cui è più facile raccogliere immagini e parole capaci di mostrare e rendere comprensibili, quasi palpabili, le emozioni e le sensazioni di quell’esperienza vissuta, anche a chi non ne è stato protagonista in prima persona.

Ci sono pomeriggi o sere in cui ci fermiamo un secondo, ripercorriamo nella mente la giornata trascorsa e sembra impossibile trovare le parole per riuscire a raccontare quando la porta dell’ufficio si apre e si chiude incessantemente al passaggio di qualcuno che porta una domanda, una richiesta che non trova risposta, quando si passa dall’urdu allo spagnolo senza soluzione di continuità e meno male che c’è Google, un colloquio, un’ambulanza, documenti, lacrime, voci di bambini, “Mi stampi Spiderman?” mentre i conti sul monitor sono tutti sbagliati, scale di corsa, incontri, occhi, mani.

Ci sono tante occasioni in cui ci troviamo a parlare di cosa significa lavorare e vivere in un centro di accoglienza, seduti in cerchio con un gruppo di ragazzi di un oratorio, o attorno a un tavolo con i nostri volontari “storici”, che non smettono di interrogarsi sul senso di quello che fanno, al telefono con una maestra o una professoressa, in giardino seduti per terra con un gruppetto di scout o con i giovani dei Cantieri della Solidarietà di Caritas Ambrosiana, nella classe di un liceo o in un’aula di università. A volte capita anche a cena, con amici e parenti.

Ci sono tempi della storia in cui un fatto di cronaca tristemente riporta il nostro lavoro “politico” quotidiano (perché in fondo quotidianamente facciamo del nostro meglio per occuparci di cura della città, di bene comune) alla ribalta dell’agenda dei media, di una politica portatrice di uno sguardo spesso distante dalla realtà di ciò che noi guardiamo e viviamo tutti i giorni. In quel momento le domande e i dubbi diventano più forti: cosa significa raccontare il nostro lavoro? Come possiamo tenere insieme il nostro legittimo desiderio di tutela, la richiesta di altri di raccogliere da noi parole e immagini, il bisogno di dare visibilità, di costruire una narrazione autentica della realtà, la necessità di esporsi?

Questo video è nato così, in un momento storico in cui i migranti e gli sbarchi sono tornati ad essere sotto i riflettori: è arrivato un po’ come una di quelle richieste formali dall’alto, a cui si sa che non ci si può sottrarre. Poi la fatica iniziale ha ceduto il passo all’energia e alla cura con cui ogni giorno ci impegniamo a cercare di fare in modo che il centro di accoglienza funzioni nel migliore dei modi possibili. Non abbiamo fatto altro che raccontare, ascoltare, proporci come mediatori linguistici e culturali, trovare il modo di spiegare e condividere i significati, accompagnare, costruire spazi di incontro e di intercultura. Nient’altro che il nostro quotidiano lavoro “politico”.

Non so esattamente cosa dica questo video a chi ci guarda “da fuori”. Credo che queste immagini riescano a raccontare molto più di tante parole, credo che dicano molto di chi siamo noi, Farsi Prossimo, di che cosa significhi per noi concretamente e quotidianamente “progetti che realizzano persone”.

So che chi vive Casa Suraya ogni giorno, guardando le immagini, non può fare a meno di ritrovare negli occhi delle persone sullo schermo, anche in quelli nascosti, le storie ascoltate, le voci, i rumori, gli odori, le fatiche, le lacrime, i momenti di gioia condivisi. E non può fare a meno di sorridere davanti alla palla da calcio, alle grida dei ragazzi che giocano, alle bolle di sapone che volano leggere nell’aria di un pomeriggio di sole. Anche questo è il nostro lavoro.